Stanis Ruinas moderatore
Registrato: 22/10/06 10:03 Messaggi: 29
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LA LINGUA
Non c’è scrittore dove non c’è cognizione ampia e intima della lingua: questo principio un tempo usuale è ora contrariato dai nuovi teorici della fantasia pura, che vedono nella lingua un mezzo materiale d’espressione e null’ altro. Essa è invece il simbolo riassuntivo della unità nazionale, e chi non la cura si palesa straniero; è l’emanazione immediata, necessaria, del nostro genio: e un Canzoniere dantesco o petrarchesco, una Gerusalemme, uno Zibaldone scritti con parole cambiate non sarebbero più neanche l’idea di quel che sono, ma cose del tutto diverse. Del resto in letteratura i mezzi d’espressione importano quanto le idee da esprimersi; non di più, come pensano gli esteti grecastri e facitori della parola, né di meno, come vorrebbero i materialisti e i moralisti; ma esattamente lo stesso. Dante è il massimo dei poeti appunto perché incarnò que’ determinati concetti in quella precisa lingua sua.
Ma i nemici delle cruscherie linguaiole (com’essi dicono piacevolmente) appartengon tutti a quella generazione di sgrammaticati analfabeti che ha ridotto in miseria la letteratura, e non occorre quindi ribattere la loro dottrina, ma piuttosto ridere della loro profondissima ignoranza. Apriamo le pagine dei giornali, e le son piene d’un serpaio di parole composite senza senso, come volontaristico, attivistico, selezionare, antipoeticità , signorilità , regolamentazione, valorizzazione, e infinite altre. Della sintassi meglio non dir nulla: tutta la schiuma de’ gerghi padani par concentrata in un fraseggiare impossibile, il cui suono soltanto basta a far trasecolare un Italiano, come rotto e ingarbugliato idioma di selvaggi male inciviliti. E certo, a legger questi d’oggi, si direbbe una tribù di Patagoni o altri babbuini che avessero imparato a caso qualche nostro vocabolo e modo. Così è de’ giornali; ma passando a’ libri non cambia spettacolo, anche perchè gli autori sono generalmente i medesimi. Va notato che questa disgrazia di Dio non è solamente degli scrittori più alla carlona, ma anche de’ più accreditati, e tenuti per linguisti: anzi in questi si può godere una matassa di vezzi proprio rari, il fuetto (frusta), toccante (cioè commo vente), le bandiere che flottano, il bordo del torrente, il villaggio in legname, il bell’aggettivo rebarbativo, e altre graziette celtiche a dozzine.
Bisogna conoscere lo spirito della lingua: solo questo ci può istruire nella scelta dei neologismi e dei barbarismi utili. Si sa ormai positivamente che le lingue sono organismi vivi, suscettibili d’accrescersi, bisognosi di cambiare. Questi mutamenti son portati o dall’uso comune, o dall’elezione degli scrittori. Ma l’uso vuole interpreti acuti, ed elezione significa finezza, profondità , istinto vivissimo del giusto, di quello che una lingua può assorbire, e di quel che non può in nessun modo esserle assimilato. Perciò scarseggiano i veri scrittori, padroni non solo della grammatica e del vocabolario, ma capaci di novità ardite, e d’alterare via via modernamente la lingua lasciandole certi caratteri immutabili, essenziali. Gli altri o sono antiquari, e armeggiano nel suo mondo di morti; oppure fingendosi audaci acciuffano maniere nuove e strane, come vengono, affinché ne risulta una pappa più da cani che da cristiani. Così è andata degradando la lingua scritta italiana, tra parole forestiere accettate senza necessità , anacoluti dialettali, idiotismi contadini messi a mostra per una belluria d’arcadi fatui, anticaglie ridicole, panzinerie senza sale, aride frasi protocollari, e quella smania di tecnicismo geometrico deplorata già dal Leopardi, oggi spinta all’insormontabile. E questo è il segno di paragone: chi non resiste alla corrente, e non ha senso critico per distinguere quel ch’è valida innovazione da quello che è esteticheria o barbarie, non si merita il titolo di scrittore.
COME PEGGIORO’
Ma da che deriva questo peggioramento della lingua? Derivò, io penso, da due cause. La prima fu la decadenza della cultura umana, cioè latina e greca principalmente, soffocata da quella nordica dei faustiani, egheliani e altri biondi. Dal rinvigorimento di questa cultura classica può dipendere la sorte della letteratura nel nostro secolo, che è pieno di lieviti generosi, ma non gli sa dare ancora forme eloquenti e quindi efficaci.
La seconda causa fu l’inutile polemica pullulata per tutto il secolo scorso, se la lingua avesse a essere nobile o popolare. Il Manzoni illustre per quelle sue poesie e quel romanzo non eccelso ma degnissimo d’ammirazione, fu per un altro verso il responsabile di quest’imbroglio. Dimenticò che di due elementi si compone la lingua degli scrittori, uno plebeo o parlato, e uno letterario e necessariamente impopolare. Quanto merito avesse la reazione del Carducci a quest’eccesso del Manzoni e dei manzoniani, sarà bene ritornarci qualche volta con più chiarezza che non si sia fatto sinora; ma qui s’entrerebbe in un tema che non è il presente.
CULTURA CLASSICA
Della cultura latina e greca ho già parlato, come indispensabile per conoscer davvero la lingua italiana: teorema che non abbisogna di dimostrazioni. Ma soprattutto è una necessità della mente. Nulla come la lettura dei grandi antichi esercita e lima il senso critico, avvezza a pesar le parole, e salva da quel gusto gotico, gusto cinese, che ha ispirato tutta la baroccheria letteraria de’ tempi ultimi. Gli scrittori italiani furon colmi sempre di cultura classica, e non si può dire che questa nocesse agl’ingegni: nocque alla rane. Ora in nome di quale novità si giustifica la rottura di questa consuetudine? Vergognosa pigrizia di gente che passa la vita a un tavolino di caffè, e a leggiucchiare l’ultimo libro di grido. E forse non correrebbero tante sconce frivolezze, se chi le scrive avesse più in pratica le frivolezze sublimi di Catullo, di Marziale, d’Anacreonte, de’ poeti idillici. Per finire, io son di quelli che non credono potersi fare a meno della cultura classica: e se siamo pochi in quest’opinione, peggio pe’ molti.
Berto Ricci |
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